“Giulio Regeni non era un agente dei servizi segreti italiani. Nella struttura non lo conosceva nessuno e su mandato ho sondato anche i servizi inglesi, l’MI6: chiesi se era una loro risorsa e mi dissero che non lo era, io penso sia vero”. E’ quanto ha affermato in aula, nel processo a carico di quattro 007 egiziani, l’ex direttore dell’Aise, Alberto Manenti, sentito come testimone.
Nel corso dell’audizione, Manenti ha ricostruito le fasi precedenti alla scoperta del corpo del ricercatore italiano. “Ci siamo trovati di fronte ad un muro di gomma da parte degli egiziani”, ha sostanzialmente detto il testimone aggiungendo che nei giorni successivi alla scomparsa, in base a anche ad una serie di elementi, la “situazione portava ad un fermo non ufficiale, una pratica spesso usata in Egitto sia per i cittadini stranieri ma soprattutto per i connazionali”.
Il capo dei servizi segreti egiziani, il Gis, già il 3 febbraio del 2016 comunicò al suo omologo italiano sulle ferite riscontrate alla “base del cranio” di Regeni. Un elemento che sarebbe stato accertato ufficialmente solo 10 giorni dopo dall’autopsia svolta in Italia. E’ quanto emerge dall’audizione dell’ex direttore dell’Aise.
“Mi trovavo in albergo al Cairo – ha detto il testimone -. Il nostro capocentro al Cairo entrò nella stanza e mi disse che era stato trovato il corpo di Giulio. Chiamai immediatamente il mio omologo del Gis il quale mi disse che avrebbe accertato del ritrovamento e poi mi chiamò dopo circa mezz’ora. Mi confermò che il corpo era di Giulio e quando gli chiesi le cause della morte mi disse una frase che mi lasciò… mi disse ‘ci sono traumi, segni al base del cranio’. Tra me e me pensai ad un colpo ricevuto da un corpo contundente. Lui parlava di segni esterni”.
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